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L'ALBERO DEGLI ZOCCOLI Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 21 settembre 1978
 
di Ermanno Olmi, con Luigi Ornaghi, Francesca Moriggi, Omar Brignoli (Italia, 1978)
 
Sull'ultimo film dell'autore de IL POSTO si è fatta una delle più confortanti unanimità critiche degli ultimi anni. L'ALBERO DEGLI ZOCCOLI sembra mettere tutti d'accordo. E' una contemplazione di un momento di vita nel quale l'uomo e la natura, in un istante di fede invidiabile, sono visti con una commozione, un'onestà, un'armonia che raramente il cinema ci aveva dato.   Il vero miracolo del capolavoro di Olmi, vorremmo ancora ripeterlo, avviene a livello espressivo. Nasce dalla straordinaria semplicità espressiva del regista, che è il perfetto riflesso della sua onestà di artista e di uomo. Egli è come il contadino del suo film che, una volta calata la sera, racconta accanto al focolare. Il suo è un racconto diretto, nel quale il fantastico e la poesia nascono dalle genuinità del racconto. Nulla si frappone (di culturale, di politico, di religioso) fra i suoi occhi e la realtà riprodotta. Solo il piacere di raccontare, il rispetto e l'amore immenso per i personaggi. La dignità estrema di alcuni dei quali (si pensi, per fare un solo esempio, al nonno ed alla sua vicenda di pomodori novelli) rimarrà sicuramente indimenticabile nella memoria di ogni spettatore di cinema.

In Olmi, ed ogni fotogramma del suo film lo testimonia, c'è la volontà costante (ma forse, meglio di volontà, bisognerebbe dire la facilità istintiva) di evitare lo spettacolo, l'accentuazione espressiva, l'eroicizzazione dei personaggi e delle situazioni. L'ALBERO DEGLI ZOCCOLI non c'è un solo grido, una sola luce, un solo effetto in più. Le sequenze iniziano e terminano non un secondo in più di quanto sia necessario alla comprensione del racconto. Quel secondo, talvolta determinante, per mostrarci la prospettiva dei pioppi che fuggono nella nebbia bergamasca, o il raggio di sole che indora la polenta sul tavolo, lo cercherete inutilmente nel film. Con la miseria dell'uomo, o con la gloria del suo incontro con la terra, Olmi non ha fatto dell'estetismo. Nell'unico appunto che si è udito talvolta sul film, si è detto che nella fede di Olmi, quella che fa guarire la vacca con l'acqua benedetta, nella rassegnazione dei contadini che assistono immobili allo sfratto finale, c'è il segno di un immobilismo cattolico, di una rassegnazione culturale, di una ingenua fiducia nella buona terra che non è fatta per far progredire il mondo.

Permettete a chi ha difeso i contadini che sono all'opposto di quelli di Olmi, i personaggi simboli di un'epoca, gli eroi poveri di NOVECENTO di dissentire completamente. Il neoclassicismo di Olmi, il suo misticismo non rifiuta la lezione ammonitrice della memoria. La sua rievocazione del passato non è mai consolatoria. E' un invito, anzi, ad interrogarci. Sulle ragioni che ci hanno portato a distruggere tanta armonia, tanta bellezza, tanta innocenza. Non per ricavarne dei temi nostalgici, ma per assumere una coscienza che ci serva per il futuro. Dietro all'apparente immobilismo dei contadini che assistono impotenti al sopruso secolare del padrone non c'è rassegnazione.

C'è (e la lezione della Storia, per noi spettatori che viviamo un secolo dopo, ce lo ha insegnato), il fuoco che cova represso di una esigenza insopprimibile di giustizia. Un fuoco, talora contenuto, talora prorompente, a seconda dell'alternarsi della Storia, che è eterno e ineluttabile come quell'alternarsi di stagioni che con tanto splendore e verità Olmi ha rappresentato.


   Il film in Internet (Google)

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